Intro: Facebook consente di includere o escludere gli utenti in base all’etnia di appartenenza negli ads. Molti si sono indignati. Io no, e ne parlo qui con Luigi Ferrara.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un articolo dal titolo “Facebook Lets Advertisers Exclude Users by Race”, e, incuriosito, l’ho letto subito con molta attenzione.
Nell’articolo si mostra una nuova funzione presente nella piattaforma di Facebook Ads, che consente di includere o escludere gli utenti dal target di riferimento del contenuto sponsorizzato in base all’etnia di appartenenza.
Come puoi immaginare, giù a criticare la scelta di Facebook, colpevole di aver creato una funzione dall’evidente connotazione razzista.
Onestamente, non ho trovato questa chiave di lettura corretta, così ho elaborato un mio pensiero, che ho espresso condividendo l’articolo sul mio profilo Facebook.
Di cosa parlo in questo post
Ha senso parlare di razzismo nel marketing?
La domanda che bisognerebbe porsi, prima di esprimere una qualsiasi opinione in merito, è la seguente: “profilare bene il target di riferimento, può essere considerato razzismo?”.
Prima di rispondere, però, facciamo un attimo una precisazione all’apparenza banale: le razze, in relazione agli essere umani, non esistono. E non lo dice Francesco Ambrosino, lo dice la scienza.
Non intendo segnalarti dei papier scientifici e tecnici, anche perché non sono in grado di comprenderli, quindi mi limiterò a lasciarti qui il link alla enciclopedia Treccani, dove puoi leggere quanto segue:
La parola razza non può essere applicata alla specie umana, che non è il risultato di una selezione artificiale, come avviene per le razze di animali e per le piante domestiche, e comunque non è divisa in gruppi chiaramente distinguibili, grazie a un’origine molto recente dal punto di vista evolutivo.
In parole povere, quello che la scienza ci dice è che l’essere umano appartiene ad una razza, l’Homo Sapiens, e basta.
Tutte le distinzioni che solitamente vengono collegate al concetto di razza sono, di fatto, di natura genetica, come ad esempio il colore della pelle o la forma degli occhi, ma anche, e soprattutto, patologica.
Ora, non intendo addentrarmi in un discorso troppo complesso e per il quale non possiedo le competenze, ma il sunto è il seguente: le razze non esistono.
Quello che esiste, in realtà, sono differenze di carattere culturale e linguistico, che vengono etichettate con il termine “etnia”.
Profilare gli utenti in base alle etnie è razzista?
Ora, fatta la necessaria premessa, veniamo al dunque. Secondo molti colleghi, indignati da questa novità di Facebook, escludere una etnia è razzista, perché vuol dire fare una selezione non sulla base degli interessi o dei dati demografici, ma in base a parametri antropologici.
Bene, io la trovo una sciocchezza, anche perché – come abbiamo visto – tecnicamente il termine etnia non si riferisce alla razza, o al colore della pelle, ma a usi e costumi, lingue e abitudini di un popolo.
L’esempio che ho riportato nel mio post su Facebook credo che sia molto chiaro:
Se io ho un pub, e voglio pubblicizzare il mio nuovo panino con carne di maiale, escludere musulmani ed ebrei è razzista? Non potrebbe essere una forma di rispetto, evitare di mostrargli quel contenuto?
Ma soprattutto, mettendo da parte l’aspetto emotivo, che senso ha mostrare un contenuto ad un utente che, in partenza, non è interessato?
E poi, escludere persone in base al titolo di studio, di età, livello socio-economico, abitudini, non è anche questa una selezione? In che modo la persona poco istruita, basso spendente o anziana dovrebbe sentirsi meno offesa, se questo fosse il giusto metro di giudizio?
Ho chiesto a Luigi Ferrara, stimato collega e amico, di esprimere la sua opinione in quanto professionista (molto) competente in materia di Facebook Marketing.
L’opinione di Luigi Ferrara
La ritengo una funzionalità utile e necessaria, già solo per un punto di vista di ecologia della comunicazione.
Si potevano raggiungere buoni risultati già impostando gli interessi in maniera corretta, ma credo che la possibilità di escludere in toto una parte di pubblico che al 100% non è interessata a quello che offro potrà semplificare di parecchio il lavoro.
E poi è anche uno strumento di prevenzione della crisi: ci permette di filtrare ancora meglio il pubblico e diminuisce il rischio di offendere qualcuno, con conseguente tempesta di commenti negativi sulla Pagina.
L’unico limite che abbiamo, in effetti, sono gli stereotipi. Quelli vanno evitati come le repliche di Sentieri in estate, per il resto ci possiamo concedere (quasi) tutto.
Altrimenti, come giustamente dicevi anche tu, vengono meno tutte le storie sul messaggio giusto al pubblico giusto.
Prendiamo le nicchie, le tribù, gli opinion leader, i micro-influencer, i moment of truth e compagnia cantante, 50 anni di teoria e pratica e li buttiamo a mare? Meglio di no. Anche perché poi chi li sente i guru della situazione?
Cum grano salis, dicevano i latini: in tutte le cose ci vuole un minimo di buon senso.
Va bene che non ci piacciono le etichette, ma se mostriamo alle donne gli annunci sui prodotti per l’allungamento del pene (cosa che forse succede già) o, viceversa, la coppetta mestruale agli uomini, magari siamo anche sicuri di non essere tacciati di sessismo, però poi non ci lamentiamo se abbiamo tanta reach e poco riscontro.
A questo punto mi potresti dire che ci possiamo affidare all’autoprofilazione, ma vorrebbe dire essere pienamente onesti su quello che comunichiamo e lasciare a chi sta dall’altra parte la libertà di scegliere quello che più ritiene adatto alla sua persona.
Quindi una persona che compra un libro edizione “for dummies” si sta autodiscriminando? Chissà.